Roghi multimediali
Questo articolo me lo gioco un po’ come una recensione.
Non è vero, ma dico così perché in effetti sto rubando l’idea di questo post da un libro che ho finito di leggere ieri. Un libro vero, con dietro il codice ISBN e il diritto d’autore. Capitemi, devo dirlo per forza che lo sto recensendo e che non ne sto plagiando i temi: non voglio passare per quello che su Internet si appropria delle idee del prossimo suo senza almeno far finta di sentirsi in colpa per averlo fatto. Ve lo dico prima che vi facciate l’idea sbagliata di me, e pensiate che sia davvero così intelligente ed originale da averci pensato tutto da solo.
Insomma, ho una reputazione da difendere, io.
Dunque ecco, sto “recensendo” un libro.
Questo libro:
E perché lo recensisco? Perché mi va. Perché mi è piaciuto, e non è ancora stato edito in Italia (almeno, non che io sappia). Perché affronta un argomento difficile in modo diretto e senza giri di parole. Perché riguarda una famiglia di reati su cui ho incentrato la mia tesi di laurea (e capirete che se non ne parlo come se fosse IL tema di discussione, rischio di farci brutta figura). Soprattutto, perché sostiene un’idea di fondo che trovo tremendamente attuale.
Il titolo del libro fa riferimento a un fenomeno che sarà familiare a chiunque abbia passato qualche tempo a gironzolare per qualsiasi social, e in particolare tra i trend di moda in un dato momento: lo Shaming, termine che nella lingua di Dante e Giurato non ha un vero e proprio equivalente diretto, ma che potremmo tranquillamente tradurre con “umiliazione”. Si tratta, detto con un esempio pratico, dell’attività di massa che consiste nel mettere un soggetto (reo di un crimine sociale reale o percepito come tale) di fronte a quello che una volta avrebbero chiamato “stigmatizzazione“, cosa che si accompagna sempre a una certa dose di riprovazione e insulti.
Il libro ne riporta molti esempi, alcuni molto famosi fuori dai confini del nostro Paese (come la storia di Justine Sacco, licenziata per un tweet razzista, o la famosa “orgia nazi” dell’allora presidente FIA Max Mosley). In Italia, vi basterà pensare alla faccenda di Schettino e alla reazione dell’utenza Facebook, o a una delle tante farse social-mediatiche che a periodi regolari riguardano questo o quel politico per questo o quello scandalo (avanti, so che volete dirlo: “tipicamente italiano”). In tutti i casi, la persona oggetto dell’umiliazione non lo è stata per mano di una singola persona, ma da parte della maggioranza percepita dell’utenza in Rete, quel segmento di pubblico attivo e vociante sui nuovi media, come opposto alla miriade di osservatori silenziosi lasciati in ombra dalle montagne di post di chi ha deciso di partecipare (e che, proprio in ragione di questo, figurano un po’ come gli astenuti nei sondaggi elettorali: sono tantissimi, ma non contano una cippa).
Prendiamo la prima delle vicende che ho citato, quella di Justine Sacco e del suo tweet:
Cosa ne pensate? Che è tremendo, di sicuro. Lo è, obiettivamente parlando. Anche fosse scherzoso, è un tantino pesante.
Lo stesso hanno pensato i suoi primi lettori. Lo hanno trovato disgustoso. E lo hanno retwittato, esprimendo questa loro opinione ad altri lettori, che lo hanno giudicato negativamente a loro volta. E che lo hanno condiviso di nuovo. Magari alzando un po’ i toni di voce. Così il tag #justinesacco diventa un trend in pochi minuti, con centinaia di condivisioni l’ora, fino a diventare il principale della giornata. Justine viene licenziata dai suoi datori di lavoro, che non vogliono avere niente a che fare con persone come lei.
Poi sono arrivate le minacce di morte.
Minacce da parte di persone che la ritenevano essere la personificazione di uno dei peggiori atteggiamenti che si possano tenere in quest’epoca: lo snobismo innato nei bianchi, nei ricchi e nei potenti, nati senza svantaggi legati alla loro origine etnica, al proprio background culturale o alle proprie scelte di vita. Poco importa che la Sacco, in realtà, non condividesse affatto questo genere di posizioni e che a tutti gli effetti si fosse costruita una verità parallela, “pubblica” e finta, per niente aderente con quello che in realtà era successo.
È un atteggiamento con cui tutti gli umiliati hanno dovuto in qualche modo vedersela. Il contraccolpo della Rete alla loro condotta e che ha distrutto la loro reputazione, marchiandoli con lo stigma di colpevoli senza possibilità di redenzione, si è esercitato nel contesto della massima spersonalizzazione possibile: nessuno dei rei aveva una vita, una storia o delle opinioni agli occhi degli altri utenti; nessuno aveva aspirazioni o senso critico, intelligenza sufficiente ad associare un contesto alle proprie azioni; nessuno era niente di più di un’estensione di quel comportamento mostrato al pubblico.
A ben vedere, tutte le minacce rivolte a Justine Sacco erano dirette non a lei, ma alla donna che, avendo mostrato disdegno per un’etnia svantaggiata, incarnava atteggiamenti impopolari. Impopolari perché bigotti, meschini e datati rispetto a una società che è passata (sta cercando di passare) oltre. In questo caso.
Ora, chi di voi ha letto La Lettera Scarlatta?
Sapete, quel classico di Hawthorne… quello dove si parla dell’adulterio a metà del seicento. Alla protagonista ricamano una lettera scarlatta sulle vesti (la “A” di adultera) e le negano la minima considerazione come essere umano. Essenzialmente, perché ha compiuto un atto che la società dell’epoca riteneva sconveniente. La mentalità del paesino puritano dell’America delle tredici colonie era quella che era, che ci volete fare. Era pure l’epoca di Salem e dei roghi alle streghe, dopotutto.
Certo, in questo caso la situazione si è capovolota: questa volta sono i bigotti, gli stessi che all’epoca sarebbero stati aguzzini, ad essere dalla parte del torto. E sono loro ad essere perseguitati.
Sì, insomma, la pietra stavolta la scagliamo nell’altro senso. La giustificazione, ancora una volta, è la morale dominante: discriminare è male. Come una volta era male l’adulterio.
Non occorre essere dei grandi interpreti per capire dove io (e, prima di me, Jon Ronston) voglia arrivare: Internet e i suoi Social Network sono un villaggio, ed ogni villaggio ha la sua gogna. La gogna è uno strumento di tortura, come ben sapete. Il suo uso è vietato dal nostro sistema giudiziario. Se un magistrato ordinasse che il colpevole di un omicidio (o di un furto, o di aver disturbato la quiete pubblica) fosse messo ai ceppi in pubblica piazza, a disposizione di chiunque per essere molestato, sbeffeggiato o chissà cos’altro, sarebbe un tantino anticostituzionale. Dunque, se un giudice investito dallo Stato non può ordinare la gogna per un condannato in via definitiva dopo un regolare processo, perché dovrebbe essere concesso farlo al popolo della Rete? Perché un utente, o una massa d’utenti, dovrebbero essere tollerati nei loro roghi multimediali?
Viene in mente il primo comma di un certo articolo 595 del nostro Codice Penale:
Chiunque […] comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1032.
Questo senza contare le minacce vere e proprie.
Ma tornando all’aspetto che più mi interessa: lo shaming è a tutti gli effetti una moneta con due facce. È un mezzo potente, un’arma che può essere indirizzata contro qualsiasi bersaglio. Non solo, ma come arma, è capace di essere usata in modo imporprio anche se impugnata da persone mosse dai “nobili” moventi; figuriamoci quando lasciata nelle grinfie di una folla senza volto e senza reale controllo di sé, che non ama pensare prima di farne uso.
In ogni caso, lo shaming è uno strumento prettamente punitivo: non mira a rieducare una persona, ma a esporne al mondo gli aspetti più negativi, con la conseguenza immediata di marchiarne l’esistenza. Lascia l’umiliato a pezzi, e ha nel peggiore dei casi l’effetto di restituire agli aguzzini una sorta di compiacimento perverso di essere più meritevoli di lui, mentre nel migliore approccia un problema concreto in modo indiretto, poco efficacie e dubbiamente rispettoso dei basilari diritti dell’uomo.
Va da sé che uno strumento del genere, del tutto primo vi regolamentazione, non può che finire per essere sempre deleterio e dannoso, e risulta più adatto ad essere represso a sua volta, che a essere tollerato.
Se poi si considera un aspetto ulteriore, del tutto inedito nella persecuzione multimediale, cioè che la notizia diffusa on-line non scompare mai (salvo deindicizzazione, grazie al cielo), l’effetto che se ne trae non può che risultare esasperato, nonché del tutto intollerabile da parte di si ritrovi a subirlo. Cosa doppiamente insopportabile per lui se si pensa che, fungendo l’attività di shaming come valvola di sfogo e crogiolo di insulti riretti ad un nemico invisibile, non è data affatto alcuna possibilità di replica: la folla, assordata dalle proprie urla indignate, non ha orecchie per ascoltare scuse, giustificazioni o repliche.
E in più, c’è un elemento più inquietante da considerare, su cui Ronson sorvola solamente: l’interesse economico a creare fenomeni mediatici. Motori di ricerca come Google vivono dell’interesse che la gente mostra per un dato argomento; i Social Network funzionano e prosperano solamente se la sua utenza si movimenta per qualcosa e decide di postare; i giornali hanno bisogno di raccontare storie interessanti.
Lo sdegno e il disgusto sono sentimenti potenti. La rabbia è forse l’emozione più potente in assoluto e quella che più facilmente si autoalimenta. Se coinvogliate, possono generare nodi d’interesse notevoli, visite e visibilità, e dare allo spazio in cui sono conservate una valore maggiore, per i possibili inserzionisti.
Non occorre essere dei logici, per capire cosa questo significhi, per chi si ritrova a partecipare, suo malgrado, al processo di umiliazione sulla Rete: se tale persona è l’oggetto dell’odio, nessuno verrà ad aiutarlo, perché le voci dei pochi sostenitori sono schiacciate dal rumore dei detrattori, e perché i proprietari del sito (non essendo spronati da alcuna legge a farlo e avendo la morale dalla loro) non vogliono disturbare il naturale decorso dei post sul loro portale; se invece si ritrova dalla parte della barricata, non potrà esercitare alcun senso critico significativo: lo farà solo se a difesa dello stigmatizzato, ma al rischio di essere stigmatizzato a sua volta, e dunque rifiutato dalla società della Rete.
Come risolvere questo problema? Regolamentando il fenomeno. E regolandolo in modo nuovo.
Dico così perché, sebbene il reato di diffamazione cui ho accennato qualche riga sopra possa in astratto adattarsi anche a questo genere di vicende, viene a mancare in questo caso l’opportunità concreta di perseguire chi lo perpetua. Come apparirà evidente al lettore, non si può davvero fare un processo ad una folla di centomila persone. Si potrebbero colpire i detrattori più appariscenti (come in effetti si fa di tanto in tanto), ma questo non risolverebbe veramente il problema (e saprebbe vagamente da “punizione esemplare”). Forse più consono sarebbe invece imporre ai siti di rimuovere le informazioni prima che la situazioni degeneri, ma anche in questo caso resterebbero dei forti dubbi su quale dovrebbe essere considerato il momento critico, e su fino a che punto ciò non venga a confondersi con un’attività di censura.
Ancora una volta, la soluzione non è semplice e gli interessi in gioco rischiano di tramutare il tema (se mai diventerà tale) in una farsa.
Per ora, l’unica possibilità è aspettare, darsi una calmata, e parlarne.