Roghi multimediali

Questo articolo me lo gioco un po’ come una recensione.

Non è vero, ma dico così perché in effetti sto rubando l’idea di questo post da un libro che ho finito di leggere ieri. Un libro vero, con dietro il codice ISBN e il diritto d’autore. Capitemi, devo dirlo per forza che lo sto recensendo e che non ne sto plagiando i temi: non voglio passare per quello che su Internet si appropria delle idee del prossimo suo senza almeno far finta di sentirsi in colpa per averlo fatto. Ve lo dico prima che vi facciate l’idea sbagliata di me, e pensiate che sia davvero così intelligente ed originale da averci pensato tutto da solo.

Insomma, ho una reputazione da difendere, io.

Dunque ecco, sto “recensendo” un libro.

Questo libro:

E perché lo recensisco? Perché mi va. Perché mi è piaciuto, e non è ancora stato edito in Italia (almeno, non che io sappia). Perché affronta un argomento difficile in modo diretto e senza giri di parole. Perché riguarda una famiglia di reati su cui ho incentrato la mia tesi di laurea (e capirete che se non ne parlo come se fosse IL tema di discussione, rischio di farci brutta figura). Soprattutto, perché sostiene un’idea di fondo che trovo tremendamente attuale.

Il titolo del libro fa riferimento a un fenomeno che sarà familiare a chiunque abbia passato qualche tempo a gironzolare per qualsiasi social, e in particolare tra i trend di moda in un dato momento: lo Shaming, termine che nella lingua di Dante e Giurato non ha un vero e proprio equivalente diretto, ma che potremmo tranquillamente tradurre con “umiliazione”. Si tratta, detto con un esempio pratico, dell’attività di massa che consiste nel mettere un soggetto (reo di un crimine sociale reale o percepito come tale) di fronte a quello che una volta avrebbero chiamato “stigmatizzazione“, cosa che si accompagna sempre a una certa dose di riprovazione e insulti.

Il libro ne riporta molti esempi, alcuni molto famosi fuori dai confini del nostro Paese (come la storia di Justine Sacco, licenziata per un tweet razzista, o la famosa “orgia nazi” dell’allora presidente FIA Max Mosley). In Italia, vi basterà pensare alla faccenda di Schettino e alla reazione dell’utenza Facebook, o a una delle tante farse social-mediatiche che a periodi regolari riguardano questo o quel politico per questo o quello scandalo (avanti, so che volete dirlo: “tipicamente italiano”). In tutti i casi, la persona oggetto dell’umiliazione non lo è stata per mano di una singola persona, ma da parte della maggioranza percepita dell’utenza in Rete, quel segmento di pubblico attivo e vociante sui nuovi media, come opposto alla miriade di osservatori silenziosi lasciati in ombra dalle montagne di post di chi ha deciso di partecipare (e che, proprio in ragione di questo, figurano un po’ come gli astenuti nei sondaggi elettorali: sono tantissimi, ma non contano una cippa).

Prendiamo la prima delle vicende che ho citato, quella di Justine Sacco e del suo tweet:

tweet-sacco

Cosa ne pensate? Che è tremendo, di sicuro. Lo è, obiettivamente parlando. Anche fosse scherzoso, è un tantino pesante.

Lo stesso hanno pensato i suoi primi lettori. Lo hanno trovato disgustoso. E lo hanno retwittato, esprimendo questa loro opinione ad altri lettori, che lo hanno giudicato negativamente a loro volta. E che lo hanno condiviso di nuovo. Magari alzando un po’ i toni di voce. Così il tag #justinesacco diventa un trend in pochi minuti, con centinaia di condivisioni l’ora, fino a diventare il principale della giornata. Justine viene licenziata dai suoi datori di lavoro, che non vogliono avere niente a che fare con persone come lei.

Poi sono arrivate le minacce di morte.

Minacce da parte di persone che la ritenevano essere la personificazione di uno dei peggiori atteggiamenti che si possano tenere in quest’epoca: lo snobismo innato nei bianchi, nei ricchi e nei potenti, nati senza svantaggi legati alla loro origine etnica, al proprio background culturale o alle proprie scelte di vita. Poco importa che la Sacco, in realtà, non condividesse affatto questo genere di posizioni e che a tutti gli effetti si fosse costruita una verità parallela, “pubblica” e finta, per niente aderente con quello che in realtà era successo.

È un atteggiamento con cui tutti gli umiliati hanno dovuto in qualche modo vedersela. Il contraccolpo della Rete alla loro condotta e che ha distrutto la loro reputazione, marchiandoli con lo stigma di colpevoli senza possibilità di redenzione, si è esercitato nel contesto della massima spersonalizzazione possibile: nessuno dei rei aveva una vita, una storia o delle opinioni agli occhi degli altri utenti; nessuno aveva aspirazioni o senso critico, intelligenza sufficiente ad associare un contesto alle proprie azioni; nessuno era niente di più di un’estensione di quel comportamento mostrato al pubblico.

A ben vedere, tutte le minacce rivolte a Justine Sacco erano dirette non a lei, ma alla donna che, avendo mostrato disdegno per un’etnia svantaggiata, incarnava atteggiamenti impopolari. Impopolari perché bigotti, meschini e datati rispetto a una società che è passata (sta cercando di passare) oltre. In questo caso.

Ora, chi di voi ha letto La Lettera Scarlatta?

Sapete, quel classico di Hawthorne… quello dove si parla dell’adulterio a metà del seicento. Alla protagonista ricamano una lettera scarlatta sulle vesti (la “A” di adultera) e le negano la minima considerazione come essere umano. Essenzialmente, perché ha compiuto un atto che la società dell’epoca riteneva sconveniente. La mentalità del paesino puritano dell’America delle tredici colonie era quella che era, che ci volete fare. Era pure l’epoca di Salem e dei roghi alle streghe, dopotutto.

Certo, in questo caso la situazione si è capovolota: questa volta sono i bigotti, gli stessi che all’epoca sarebbero stati aguzzini, ad essere dalla parte del torto. E sono loro ad essere perseguitati.

Sì, insomma, la pietra stavolta la scagliamo nell’altro senso. La giustificazione, ancora una volta, è la morale dominante: discriminare è male. Come una volta era male l’adulterio.

Non occorre essere dei grandi interpreti per capire dove io (e, prima di me, Jon Ronston) voglia arrivare: Internet e i suoi Social Network sono un villaggio, ed ogni villaggio ha la sua gogna. La gogna è uno strumento di tortura, come ben sapete. Il suo uso è vietato dal nostro sistema giudiziario. Se un magistrato ordinasse che il colpevole di un omicidio (o di un furto, o di aver disturbato la quiete pubblica) fosse messo ai ceppi in pubblica piazza, a disposizione di chiunque per essere molestato, sbeffeggiato o chissà cos’altro, sarebbe un tantino anticostituzionale. Dunque, se un giudice investito dallo Stato non può ordinare la gogna per un condannato in via definitiva dopo un regolare processo, perché dovrebbe essere concesso farlo al popolo della Rete? Perché un utente, o una massa d’utenti, dovrebbero essere tollerati nei loro roghi multimediali?

Viene in mente il primo comma di un certo articolo 595 del nostro Codice Penale:

Chiunque […] comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1032.

Questo senza contare le minacce vere e proprie.

Ma tornando all’aspetto che più mi interessa: lo shaming è a tutti gli effetti una moneta con due facce. È un mezzo potente, un’arma che può essere indirizzata contro qualsiasi bersaglio. Non solo, ma come arma, è capace di essere usata in modo imporprio anche se impugnata da persone mosse dai “nobili” moventi; figuriamoci quando lasciata nelle grinfie di una folla senza volto e senza reale controllo di sé, che non ama pensare prima di farne uso.

In ogni caso, lo shaming è uno strumento prettamente punitivo: non mira a rieducare una persona, ma a esporne al mondo gli aspetti più negativi, con la conseguenza immediata di marchiarne l’esistenza. Lascia l’umiliato a pezzi, e ha nel peggiore dei casi l’effetto di restituire agli aguzzini una sorta di compiacimento perverso di essere più meritevoli di lui, mentre nel migliore approccia un problema concreto in modo indiretto, poco efficacie e dubbiamente rispettoso dei basilari diritti dell’uomo.

Va da sé che uno strumento del genere, del tutto primo vi regolamentazione, non può che finire per essere sempre deleterio e dannoso, e risulta più adatto ad essere represso a sua volta, che a essere tollerato.

Se poi si considera un aspetto ulteriore, del tutto inedito nella persecuzione multimediale, cioè che la notizia diffusa on-line non scompare mai (salvo deindicizzazione, grazie al cielo), l’effetto che se ne trae non può che risultare esasperato, nonché del tutto intollerabile da parte di si ritrovi a subirlo. Cosa doppiamente insopportabile per lui se si pensa che, fungendo l’attività di shaming come valvola di sfogo e crogiolo di insulti riretti ad un nemico invisibile, non è data affatto alcuna possibilità di replica: la folla, assordata dalle proprie urla indignate, non ha orecchie per ascoltare scuse, giustificazioni o repliche.

E in più, c’è un elemento più inquietante da considerare, su cui Ronson sorvola solamente: l’interesse economico a creare fenomeni mediatici. Motori di ricerca come Google vivono dell’interesse che la gente mostra per un dato argomento; i Social Network funzionano e prosperano solamente se la sua utenza si movimenta per qualcosa e decide di postare; i giornali hanno bisogno di raccontare storie interessanti.

Lo sdegno e il disgusto sono sentimenti potenti. La rabbia è forse l’emozione più potente in assoluto e quella che più facilmente si autoalimenta. Se coinvogliate, possono generare nodi d’interesse notevoli, visite e visibilità, e dare allo spazio in cui sono conservate una valore maggiore, per i possibili inserzionisti.

Non occorre essere dei logici, per capire cosa questo significhi, per chi si ritrova a partecipare, suo malgrado, al processo di umiliazione sulla Rete: se tale persona è l’oggetto dell’odio, nessuno verrà ad aiutarlo, perché le voci dei pochi sostenitori sono schiacciate dal rumore dei detrattori, e perché i proprietari del sito (non essendo spronati da alcuna legge a farlo e avendo la morale dalla loro) non vogliono disturbare il naturale decorso dei post sul loro portale; se invece si ritrova dalla parte della barricata, non potrà esercitare alcun senso critico significativo: lo farà solo se a difesa dello stigmatizzato, ma al rischio di essere stigmatizzato a sua volta, e dunque rifiutato dalla società della Rete.

Come risolvere questo problema? Regolamentando il fenomeno. E regolandolo in modo nuovo.

Dico così perché, sebbene il reato di diffamazione cui ho accennato qualche riga sopra possa in astratto adattarsi anche a questo genere di vicende, viene a mancare in questo caso l’opportunità concreta di perseguire chi lo perpetua. Come apparirà evidente al lettore, non si può davvero fare un processo ad una folla di centomila persone. Si potrebbero colpire i detrattori più appariscenti (come in effetti si fa di tanto in tanto), ma questo non risolverebbe veramente il problema (e saprebbe vagamente da “punizione esemplare”). Forse più consono sarebbe invece imporre ai siti di rimuovere le informazioni prima che la situazioni degeneri, ma anche in questo caso resterebbero dei forti dubbi su quale dovrebbe essere considerato il momento critico, e su fino a che punto ciò non venga a confondersi con un’attività di censura.

Ancora una volta, la soluzione non è semplice e gli interessi in gioco rischiano di tramutare il tema (se mai diventerà tale) in una farsa.

Per ora, l’unica possibilità è aspettare, darsi una calmata, e parlarne.

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Lettori e altri miti

Se mi state leggendo, sappiate che siete parte di un media di morti viventi. Siete a tutti gli effetti un articolo di folklore digitale che s’avvia a diventare leggenda o mito contemporaneo. Se resterà qualcosa di voi, sarà giusto una favoletta o due: sarete l’Uomo Nero che infesta il sottoletto, e sarete l’Orco cattivo che mangia i bambini nel suo castello. Siete già adesso qualcosa di meno di un pettegolezzo, ma già più di una curiosità. Siete, se dovessi trovare un buon termine di paragone, una razza in via d’estinzione.

Non abbastanza in pericolo da finire sul logo di qualche caritatevole compagnia di filantropi, a dire la verità, ma già un po’ fate tenerezza a tutti. Le campagne di promozione e salvaguardia per voi le si organizzano già. Mettetevi il cuore in pace se non si è ancora parlato di riconoscere per legge il “diritto dei lettori”: come è accaduto per gli animali, verrà anche il vostro tempo (e, in tutta franchezza, confortatevi che non siete ancora stati trasportati dall’immaginario collettivo al livello delle vacche e delle scimmie, anche se parte del mondo dell’editoria già adesso non si distingue un granché dagli animali da cortile).

Non cercate di negare la vostra natura di cariatide tassonomica, mi raccomando. Vi servirebbe a poco: le statistiche parlano chiaro e voi non potete certo correre così veloce da seminare una statistica. No no, le statistiche hanno naso, fin troppo naso. Datevi un’annusata: non lo sentite l’odore di cartapecora frammisto a sentori di WWF? Ecco, la statistica lo sente. Mettetevi il cuore in pace.

So come ci si sente. Anche io ero come voi. Un lettore. Ho cominciato che avevo credo un quattordici anni o suppergiù. Dico, a leggere con passione. Prima non mi importava: il grosso di quanto mi capitava di leggere veniva dalla piccola biblioteca che la nostra maestra aveva allestito alle scuole elementari, e quindi potrete immaginare il livello di interesse che tale selezione poteva destarmi. Finito Dahl, Rodari e Pitzorno, il resto era fuffa. Poi vabbè, c’era anche l’occasionale Melville in edizione integrale, ma voi capirete che ben poco possono fare le illustrazioni e la traduzione di un certo signor Pavese contro milleduecento pagine di trattato sulle balene. Quindi, ecco, non ho letto davvero fino a molto più tardi. La ragione? Semplicemente, non mi andava. Nulla di quello che mi era proposto era sufficientemente interessante, e nessuno mi poteva dire che stavo guardando nel posto sbagliato.

C’è molto in questa frase, molto più di quel che sembra.

Primo, conferma con un aneddoto quello che alcuni ricercatori temono da tempo, ossia che chi vive in un ambiente di non-lettori, difficilmente si sottrae a tale condizionamento. Se nel vostro casolare chi porta i pantaloni ha scelto come focolare lo schermo del televisore, occorrerà rassegnarsi a scegliere: o fare lui compagnia, o starseme in un cantuccio da soli, al freddo. Poco importa se il capofamiglia lavori effettivamente 12 ore al giorno o se sia solamente abbonato al calcio in prima serata: quello che il capo vuole, gli altri fanno; quello che al capo piace, piace a tutti. Un tempo sottrarsi a questo meccanismo significava passare la notte coi lupi. Vi piace stare coi lupi? Beh, solo i lupi van coi lupi! Siete stati avvisati.

Secondo, niente di quello che avevo a mia disposizione era abbastanza intrigante. Era ancora l’epoca in cui Internet non era lì per illuminarmi sulle ultime novità della letteratura. Tutto quello che avevo a disposizione era una biblioteca comunale, di un comune anche abbastanza piccolo di cui io costituivo comunque la periferia e certo non la demografia di riferimento. C’era un bancone coi LibriGame. Vi lascio immaginare il resto.

Infine, avevo di meglio da fare. Avevo un computer, per la miseria. Con i videogiochi! Potevo sparare ad orde di demoni su Marte, navigare per i mari su un vascello pirata, comandare eserciti dai Secoli Bui fino alla scoperta della polvere da sparo. Avevo anche una PlayStation, un abbonamento a Topolino e, dal 2000qualcosa, Internet. Chi aveva il tempo per leggere? Sul serio.

Sempre più spesso si discute sul perché si legga di meno. Ciascuno di queste tre variabili è stata discussa e ha il suo peso.

Ora, i primi due punti sono qualcosa di consistente, anche se solo uno dei due è veramente un sintomo di scarsa attenzione al mondo dei lettori: non si può veramente andare a fare i conti con ogni padre o madre di famiglia per costringerlo/a a introdurre nel proprio domicilio un’espressione di una cultura che non gli appartiene, per scelta, mancanza di tempo, necessità o disinteresse. Si può agire direttamente sui giovani (come appunto è stato fatto) per invogliarli a prendere l’abitudine loro stessi, fare sconti fiscali alle librerie, pubblicizzare e rivisitare titoli degni di essere letti (siano essi novità o grandi classici), questo sì.

Il terzo punto, al contrario, non è una cosa seria. Eppure, è proprio quello che fa la differenza. Una giornata ha solo 24 ore, 7-8 delle quali non siamo nemmeno in giro. Delle 16-17 ore rimanenti, 8 se ne vanno per lavoro e un paio si perdono ai pasti. Restano 6-7 ore, che mi sentirei di arrotondare a 5 o anche meno, contando tutte le altre necessità improrogabili della giornata (lavarsi, andare in bagno, spostarsi, pulire stanze e indumenti e rassettare). Queste quasi-cinque ore non sono concentrate in un unico filone consistente, ma dipanate nell’arco di tutta la giornata, giornata in cui magari gradireste accendere il tablet qualche secondo, rispondere a mail e telefonate, guardare questo o quel film, magari accendere quella stessa PlayStation 4 per cui avete speso mezzo migliaio di euro. Ammesso che vi resti qualcosa per leggere, sarà si e no un’oretta. Forse di più, rinunciando ai vostri altri interessi. Ora, avete intenzione di leggere tutti i libri del Trono di Spade? Preventivatevi almeno 3-4 mesi, se vi sentite ottimisti. Siete pazzi abbastanza da leggere tutta La Torre Nera o la saga di Dune? Meglio che chiedate qualche libera uscita al vostro datore di lavoro. Magari il piccolo classicista in voi vi ha spinto ad acquistare uno di quei Mammuth con le pagine formato Bibbia, sottili come l’anima di un angelo? Sapete, i monasteri tibetani non sono ancora del tutto pieni.

Spesso ho letto della generazione corrente come della “generazione dei cattivi lettori” o anche come della “generazione di chi tanto scrive, ma poco legge”. Penso che sia un’affermazione tremendamente arrogante, come se in qualche modo i lettori di oggi fossero tutti vanesi e deliberatamente autoreferenziali.

Indubbiamente, esistono anche lettori così. Ma allora mal si spiegherebbe la presenza dell'”alta cultura” (e non dei barzellettari calcistici) tra le classifiche dei best seller.

In verità, la generazione corrente non ha scelto di leggere meno. È il mondo intorno a lei che l’ha costretta.

Beninteso, non parlo affatto del segmento di popolazione che tende a relegare i libri nel mobiletto a fianco del water (perché tanto carta è carta), che comunque non leggerebbe, ma proprio di chi, magari scoprendo la lettura fuori dal bollettino da scuola dell’obbligo, vorrebbe approfondire un po’ qualche suo interesse particolare o anche solo evadere. Quelle persone hanno altro da fare. E fare altro è un loro sacrosanto diritto, senza sentirsi dire che dovrebbero dedicare il loro tempo libero a qualcosa che magari non le intriga così tanto.

Perché vedete, leggere non è un obbligo. È una cosa che si fa per puro intrattenimento, o per desiderio personale di elevazione culturale. Come, del resto, si potrebbe dire per qualsiasi cosa che abbia a che vedere con il prodotto dell’ingegno umano, sia esso goduto attraverso le pagine di un libro, una tela, un impianto stereo, un cinema o una console per videogiochi. È un media, e come tutti i media ha le sue particolarità e i suoi tempi, i suoi target e il suo uso.

Spero di non turbare l’esistenza di nessuno rivelando che non tutti i libri sono meritevoli. Dirò di più: nemmeno la lettura in sé, è meritevole. Non si dice che guardare “Natale a Predappio” sia un traguardo intellettuale in quanto rende partecipe lo spettatore al media. Perché così dovrebbe essere per chi legge un qualsiasi rigo di testo? Non a caso, esistono le recensioni di libri come esistono quelle dei film. Esistono i libri fatti per essere consumati in un pomeriggio di noia, quelli che devono essere centellinati nel tempo e goduti con studio cenobitico, quelli che servono a imparare e quelli che servono a dimenticare.

Il problema, però, è ancora una volta questo: il tempo.

Ecco dunque che la soluzione diventa più banale di quello che si vorrebbe fosse: un film si esaurisce in una serata, un libro che racconti la stessa storia necessiterà di più tempo. Non solo, ma il film è spesso un evento, cui si va in compagnia; un libro richiede invece una certa dose di solinga ritrosìa ed egotismo (essendosi ormai perduta l’abitudine di leggere ad alta voce). Il libro, che non è proprio una sveltina, ma l’espressione cartacea di una relazione naturalmente duratura ed esclusiva, non ammette altri interessi. Il libro, in quanto tale, è assolutamente contro ogni pluralismo, a meno che non si rientri in una di quelle fasce di lettori che (guardacaso) hanno maggior tempo da riempire: giovani e studenti, o pensionati, o vacanzieri nel loro tempo di relax. Il libro è, in altre parole, un media che succhia più tempo di quanto ci possiamo permettere. Si legge di meno, ma le nostre vite non sono mai state così piene, ed è naturale che si decida di ridimensionare lo spazio dedicato alla lettura.

Che, mi raccomando, non significa che il libro (almeno nella sua essenza di testo) sia destinato a morire come veicolo di idee.

Come il sabato sera di follie non uccide il desiderio di metter su famiglia, nessun media alternativo ucciderà mai la lettura. Né avrebbe senso pensarla così. Non si passa una notte di bagordi con lo stesso spirito con cui si prende moglie, o almeno non si dovrebbe. L’una e l’altra cosa rispondono a bisogni diversi. Bisogni di cui non ci libereremo mai del tutto, perché siamo esseri umani. Al massimo, si leggerà da un tablet e non da un supporto cartaceo, ma anche su questo restano forti dubbi.

Sarebbe quindi ora di smetterla di guardare alla quantità di pagine lette e di dedicarci solamente (e solamente) alla qualità della lettura, sulla promozione del bello scrivere e sui modi in cui gli editori possano acconsentire a tale processo capillare senza finire col pubblicare solo un libro all’anno.

Ma questa è un’altra storia.

Ozio, innovazione e forni doppiogiochisti

Vorrei subito specificare che sono un ragazzo.

Ragazzo nel senso di maschio, peneportante, ics-ipsilon che dir si voglia: ragazzo nel senso di esponente del sesso che tradizionalmente passa la maggior parte del suo tempo a farsi fare da mangiare, più che a farselo da sé.

Eppure, sono tremendamente affascinato dai fornelli. Non tanto dal fatto che – mi dicono – possano essere usati per dare fuoco alle cose, sia chiaro: su questo ho già dato, e a buona memoria di quello che è successo l’interdizione al gas è al momento stata estesa ad ogni genere di bocca da fuoco, sicché sono per ora relegato dai Poteri Che Sono al meraviglioso (sebbene creativamente poco stimolante) mondo del microonde. Non mi affascinano, i fornelli, nemmeno nel modo più intuitivo in cui potrebbero farlo, cioè nella loro tipica funzione di successore moderno del focolare primitivo: sebbene l’idea di convivio e intimità che la cucina suggerisce spinga il grosso dei miei conterranei a investire in cappe, pentole e pasti più che nel resto della propria casa, e sebbene ritenga che la cosa possa essere in parte sovrapposta col senso che amo attribuirle io, è un altro il significato che cerco.

No no, della cucina mi affascina proprio l’idea. Il possibile della cucina in quanto cucina, e cioè in quanto complesso di mobilio dedicato, tavola e piano cottura, posizione delle sedie e della caffettiera, teoria e pratica della disposizione del forno e del frigo, metodica della ricollocazione del piattame, feng-shui del televisore e del capofamiglia, con annessi membri cadetti che ne sopportano i gusti catodico-mangerecci.

Date queste premesse, il povero lettore può solo immaginare il fervoroso esaurimento psichico che mi pervade di conseguenza ogni volta che mi capita di sfogliare un catalogo di cucine hi-tech. Se ha un background medico, potrà forse anche diagnosticare la sincope (e nel caso, lo pregherei di resistere all’impulso di farmi ricoverare) che notizie di invenzioni come il (revampato, a dire il vero) frigorifero smart possono indurmi, specialmente se unite alla decisione del già menzionato capofamiglia di ristrutturare proprio la stanza dove andrei a collocarlo, idee bizzarre a parte.

Puri neurodeliri. Neurodeliri miei e di chi mi sta intorno. Non li biasimo: è dura sopportarmi già solo quando parlo dei miei interessi più umanamente tollerabili, ma quando mi capita di dilungarmi in ore di discorsi sconclusionati su come adottare un bollitore wi-fi al posto del nostro farebbe risparmiare venti euro all’anno (nonostante non ci sia nessun bollitore da sostituire), rasento – sans iperbole – la tortura cinese.

Ma non posso farne a meno. E il perché, a dispetto di quello che potrebbe sembrare, è legato a un riflesso naturale, a un modo di essere dell’umano e della sua storia come specie, e come specie intelligente in particolare. Il bisogno cui mi riferisco è quello di adattare lo spazio alla persona, in modo che questa stessa ne risulti in un rapporto di dominio e controllo il più intensivo possibile. Il controllo sull’ambiente non è una novità che dovrei essere io a svelarvi: se abbiamo deciso che possono esistere delle strade, ossia dei percorsi definiti in un mondo che si estende infinito (sia in termini di spazio che di definizione), e su quelle strade abbiamo basato la nostra vita, allora non dovremmo trovare per nulla strano nemmeno voler decidere che esiste un luogo per ogni cosa (con buona pace per chi si ostina a mangiare a letto o sul water), né dovremmo meravigliarci se la tecnologia cerca di creare uno standard in cui quel controllo risulta profittevole.

È quello che ultimamente, in tema innovazione, ha oramai assunto l’appellativo di Internet of things e che dentro le mura di casa si traduce come il più ozioso degli influssi che la tecnologia può esercitare: la domotica.

Uso il termine “ozioso”, in questo caso, in un’accezione del tutto positiva.

Vada pure che “l’ozio è il padre dei vizi“, come amava dire il parroco e, sarcasticamente, mio nonno, che invece lavorava nei cantieri. Ma l’ozio, e qui balugina la silhouette della mia professoressa di italiano, è la condizione minima entro cui l’uomo esercita la sua creatività. Non mi serve nemmeno allontanarmi dal pretesco adagio, per dimostrarvelo. Come sapete bene, i vizi sono molti più di quelli che il lettore di blog medio riesca a immaginare. Se l’ozio ne è il padre, ne è logica conseguenza che l’ozio stesso si è dato molto da fare, per concepirli tutti. L’ozio, allora, è fonte di innumerevoli vicende umane e, oserei dire, della maggior parte dei piaceri che a quelle sono associati. Se fosse vero che l’ozio è cosa da cui sempre e comunque è necessario rifuggere, ne verrebbe una condizione di complessiva ipocrisia difficilmente mascherabile: se il pensiero ci turbasse veramente, dovremmo arrossire ogniqualvolta ci capiti di usare l’automobile per andare dal punto A al punto B, perché potevamo andarci con le nostre proprie gambe; dovremmo strapparci i capelli ad ogni acquisto, perché avremmo potuto adoperarci per produrre quel bene per conto nostro; soprattutto, dovremmo vergognarci del tempo sprecato in hobby, vacanze e ferie, a patto che tali attività non si risolvano in una propaggine del lavoro o nel riposo necessario a rimetterci in forza per affrontarlo. E qui, vi sarete accorti, si trova il discrimine vero tra il concetto di ozio e di mero riposo: l’uno è fine a se stesso, l’altro è fine ad altro, cioè al lavoro. Si riposa in vista di una fatica futura che non possiamo evitare, ma si ozia solo per il piacere di oziare, ossia per il piacere di intrattenere noi stessi.

Rientrano dunque nella categoria dell’ozio tutte le applicazioni della tecnologia al nostro vivere quotidiano, e lo fanno in più modi: non solo ci permettono di accrescere la nostra oziosità, dandoci più tempo libero (ovvero più risorse) da sprecare come vogliamo, ma ci parlano, ci raccontano cose e ci riempiono le giornate in quanto dichiarazione d’amore all’ozio e alle sue possibilità.

Quando vedo una stanza vuota, il mio primo pensiero è: cosa metterò in questa stanza perché la mia vita ne esca migliore? Questa è domotica ed è, come detto, non una comodità nel senso di “superfluo, lusso, capriccio”, ma comodità nel senso di “naturale ricerca del miglioramento”, cui non possiamo seriamente proporci di scampare.

È allora una nota assai positiva che proprio su questo si sia scelto di investire. Lo hanno fatto le università, formando persone che, a loro volta, hanno dato vita a progetti innovativi, lo ha fatto il governo, proponendo la possibilità al cittadino di detrarre il grosso delle spese di adeguamento, lo ha fatto, soprattutto, il cittadino stesso, che è naturalmente approdato proprio a queste naturali migliorie.

Di mio, apprezzo. E lo faccio pur sapendo che la domotica, come tutte le cose, presenta anche i suoi lati negativi. Lati che sono inevitabili come l’insieme di tecnologie a cui sono legati, e che non vale la pena ignorare, perché certo chi ne abusa non li ignorerà. Parliamo ad esempio alla possibile interazione di un concetto come i Big Data con, ad esempio, la lettura automatica dei prodotti inseriti nel vano frigo (con, magari, possibilità di condividere immediatamente la rilevazione sui social). Cosa da poco? Certamente no, perché quei dati saranno usati per far sapere a chi si troverà a maneggiarli cosa proporvi, nel bene e nel male.

A titolo d’esempio, provate ora a immaginare che quello stesso frigo si occupi anche di suggerirvi cosa acquistare. E che magari lo faccia proponendovelo al volo, con una lista già fatta, che dovrete solamente approvare per vedervi recapitato direttamente a casa tutto il necessario, scontato e con spedizione gratuita.

Favoloso.

Certo, se il frigo fosse effettivamente imparziale. Come per gli ads sui siti, anche i suoi “suggerimenti” potrebbero nascondere un intento ulteriore a quello di “consigliarvi ciò che è meglio per voi”. Lo stesso principio può essere replicato anche in altri luoghi della casa: un impianto luce-gas domotizzato abbatterà i vostri consumi alla radice, ma allo stesso tempo potrebbe informare chicchessia su quali elettrodomestici state usando e quando e quanto li usate, determinando così le vostre abitudini quotidiane e, magari, quando non siete in casa; un sistema di videosorveglianza smart sarà accessibile ovunque e comunque, anche se siete a miglia e miglia di distanza, ma potrebbe essere sfruttato impropriamente per sbirciare nella vostra intimità; un’auto senza guidatore vi porterà dappertutto velocemente e senza incidenti, ma potrebbe “preferire” stazioni di rifornimento mirate o potrebbe comunicare i vostri spostamenti allo stesso sistema che si occupa di direzionarla.

C’è da andare al contempo in estasi e in paranoia, con ripercussioni sociali, legali ed economiche tutt’altro che trascurabili. Non è per niente improbabile che in futuro, per dirne una, una legge possa proibire al vostro forno di far sapere a qualcuno quello che avete cucinato ieri sera. A dire una cosa del genere qualche anno fa vi avrebbero dato per pazzi e invece, oggi, inizia a sembrare tutto fuorché irragionevole ordinare a un forno… Beh, di “chiudere quel forno”. Se poi ordineranno anche la frigo di smetterla con le battute da quattro soldi, sarà solo questione di aspettare che i meccanismi della politica facciano il loro corso.

Come sempre, è ancora presto per poterlo sapere. Io, nel frattempo, penso che starò attento a non dire niente di importante al mio fornello.

Chi sa fare, fa. Chi non sa fare, compra.

Andiamo subito al punto: stampanti 3D.

Stampanti 3D user-friendly. Stampanti 3D da casa.

Bello, eh?

Se avessi esordito così cinque anni fa, probabilmente avrei anche dovuto spiegarvi di cosa stavo parlando. E invece, siamo nel 2016: l’anno della definitiva messa in commercio dell’Oculus Rift, della verbosità ciceroniana in Twitter,  l’anno che forse segnerà un punto di svolta importante per le auto senza pilota, l’anno che ha talmente tanto da offrirci che ha deciso di presentarsi bisestile e con ponti a non finire, per meglio accomodare tutte le nostre esigenze di esplorazione tecnologica.

Sì, insomma, non ve lo devo dire io cos’è una stampante 3D, anche perché avrei ben poco da dirvi (“eh, la attacchi al PC e stampi le cose… ma tipo che te metti il coso e la macchina fa fzfzfzfzfz con i fili e ti esce la roba, no?”). È la prossima grande innovazione. La prossima grande rivoluzione digitale in campo domestico, e tutto il resto.

Lo sappiamo, lo sappiamo già.

Quello che ho da dire, invece, riguarda un punto che non si tende molto a discutere, quando si parla di printing 3D fatto in casa. Un punto che è il principale, anche se forse non l’unico, ostacolo alla diffusione capillare di questa tecnologia.

Mi rivolgo a chi fra voi ha un minimo di intelligenza, mettendoci dentro – perché no? – anche quelli laureati in legge (lo so che ci siete, voialtri poveri diavoli: ormai il wi-fi lo si prende anche da sotto i ponti). Chi, non sapendo distinguere l’acceleratore dal freno, si appresta a condurre un autoveicolo, quanto impiegherà per tramutare la propria avventura a quattro ruote in una sorta di replica in chiave grottesca delle mie sessioni ludico-terapeutiche di GTA-con-carro-armato-contromano?

Sarete d’accordo con me che il soggetto in questione dovrebbe essere lasciato il più lontano possibile da qualsiasi automobile non custodita fino a quando non potrà almeno scroccare una patente a qualche scuola, ché almeno sul rapporto della Polizia Stradale gli si possa almeno marchiare a fuoco una bella responsabilità a titolo di dolo.

C’è poco da fare: nel peggiore dei casi, lo spatentato automunito sarà un pazzo ansiosio di far danni; nel migliore, non avrà desiderio di guidare alcunché, e la sua macchina (con tutte le possibilità e potenzialità che ha) sarà lasciata ad ammuffire nel garage, come fosse una sorta di articolo da esposizione.

Con le stampanti 3D, è la stessa cosa. Cioè… più o meno. Insomma, sì, non sto dicendo (giuristi, vi richiamo all’ordine) che ciascun possessore di stampante 3D dovrebbe o dovrà munirsi di una sorta di abilitazione a farne uso. Non vogliamo dare all’analogia troppo credito, vero?

Il punto è che chi guida, dovrebbe saper guidare. Le stampanti 3D sono le principali candidate a diventare la prossima grande novità tecnologica, ora che persino smartphone e tablet stanno cominciando a passare da tal grado a necessità di tutti i giorni. Il problema è che, dove per usare uno smartphone non occorreva altro che saper navigare o telefonare, veramente poco del printing in tre dimensioni può essere approcciato in moto intuitivo dall’utente medio.

Lo standard probabile dei prossimi anni resta, a mio giudizio, abbastanza mal formato. Resta implicita, nella grande discussione della stampa in 3D, la questione secondo la quale sarà giocoforza che tale demografia sia relegata alla mera possibilità di scegliere tra i progetti di catalogo (gratuito o meno) cosa intende replicare con la propria attrezzatura da camera. Il problema è che, a questo punto, dovremmo anche inserirci in un’ottica radicalmente diversa rispetto a quella con cui siamo abituati con la cosa più vicina alla 3D-printer, ossia la cara vecchia stampante da tavolo.

Sì, avete presente? Quella che in questo momento se ne starà a meno di due metri da voi, a usare cartamoneta ed estratto di diamanti come inchiostro.

Quando si utilizza una stampante 2D, non esistono vere e proprie limitazioni: i software che ne fanno uso fanno parte della conoscenza IT standard. Se state leggendo questa pagina, probabilmente sarete in grado di utilizzare un elaboratore di testi, o di ordinare a un programma qualsiasi di inviare il file alla stampante perché possa imprimerli sulla carta. Non è però affatto scontato che siate anche in grado di fare lo stesso con un oggetto 3D.

Tanto si è parlato dei benefici che la stampa 3D porterà nelle nostre abitazioni. Si è detto che un esemplare fatto in casa di questa splendida macchina potrebbe portare risparmi dai 300 ai 2000 $ per famiglia, ove questa si limitasse alla realizzazione di solo una ventina di oggetti di uso comune nell’arco di un anno. Ciò che si è omesso di dire, però, è che quella famiglia molto probabilmente non sarà in grado di produrre ciò di cui avrebbe bisogno.

Provate. Dotatevi di un qualsiasi programma di modeling e progettate una comune vite per fissare. Non ne siete in grado? Allora forse non siete nemmeno in grado di replicare le centinaia di belle idee che potrebbero assillare i vostri sogni bagnati in 3D.

Sì, perché artigiani digitali non si nasce. Nemmeno se si è nati con un pad in mano.

Verrò al punto: a mio parere, ciò che più di tutto impedisce a questa tecnologia di raggiungere il suo punto critico, ed iniziare una vera e propria rivoluzione manifatturiera, è la mancanza di una cultura CAD domestica.

Metterò anche le mani avanti, e vi dirò che il punto sulla “rivoluzione manifatturiera” non è casuale, né gratuito. È ben possibile che il 3D-printing raggiunga la massa critica senza passare solo ed esclusivamente per le mani dei tecnici. Anzi, è molto probabile che sarà proprio così: si arriverà necessariamente ad un punto in cui il costo a singola unità sarà sufficiente contenuto e i database che raccolgono le creazioni dei pochi utenti in grado di usare un software di modeling abbastanza popolati da interessare anche i membri più laici della comunità digitale. È anche ben possibile che qualche startup inizi a uscire dalla scena dei FabLab per proporsi come interlocutore commerciale, e che inizi a proporre cataloghi di progetti “ad alta qualità” per chi vogli acquistarne la licenza (e, chissà, magari l’Italia su questo sarà all’avanguardia, risultando seconda al mondo per nuove aziende che si occupano proprio di questo).

Certo, tutto questo è possibile e anche probabile, ma da qui a dire che sarà l’alba di una nuova era, è tutta un’altro paio di maniche. Ciò che è certo è che la tecnologia verrà a creare una nuova classe di lavoratori: gli artigiani digitali di cui parlavo poco più su. Ma questo non significa che la nostra vita cambierà poi di molto.

La stampante 3D, a ben vedere, incide più che altro sulla disponibilità di un bene: se lo voglio, e ne dispongo in formato digitale, posso replicarlo nella vita reale. Questa è una grande notizia, specialmente per chi ha necessità di pezzi molto particolari, o ha una piccola necessità per cui ritiene sia più saggio produrre l’oggetto in casa, piuttosto che spendere tempo e denaro (e carburante, con danni per l’ambiente) solo per acquistare quella cosuccia. Senza dubbio questo dovrebbe abbattere i cosi, sia materiali che umani.

Certo, se i progetti venissero effettivamente diffusi a basso costo.

Ma la verità è ben altra: quando un servizio è appannaggio di pochi, di solito quei pochi fanno il possibile per trarne profitto. Beninteso, non è un male. Anzi, è il pilastro su cui poggia ogni civiltà stanziale che sia mai esistita. La specializzazione del lavoro non è una novità, e chiunque di noi ne dipende, almeno in minima misura. È giusto che chi di quella capacità specializzata dispone, possa farne uso e trarne frutti. Per riprendere una metafora artigianale: così come una pialla non vale niente nelle mani di chi non è falegname, ma acquista immense potenzialità nelle sue, di mani, allo stesso modo una stampante 3D varrà davvero solo se messa nelle mani di chi la sa usare. E tutti gli altri, se vorranno partecipare a quel valore, dovranno pagare.

Non dovremo stupirci, allora, se per naturale conseguenza di questa logica ogni compagnia che distribuisca stampanti 3D si doterà di un servizio proprietario. Un Apple o Play Store di progetti 3D, in luogo che di app. Un marketplace dedicato assolutamente regolamentato dalla compagnia, non negoziabile, necessario. Naturalmente, con tutti i progetti interessanti a pagamento.

In altre parole: spero siate pronti a sborsare un centone per una licenza perpetua per stampare viti a stella.

No? Allora avete appena acquistato un apparecchio che non stampa pezzi di plastica, e che dunque… beh, che dunque è a tutti gli effetti nient’altro che un pezzo di plastica.

Forse sono troppo intrigato dai futuri distopici, ma fidatevi di me: il mercato vede sempre dove il mercato può inserirsi. Ed è proprio per questo che urge educare la prossima generazione al CAD.

Non sto cercando di imporre una sorta di apprendistato artigianale in salsa contemporanea, attenti. Il grande vantaggio dei programmi di modeling, rispetto agli utensili del fabbro, del falegname o di qualunque altro esperto in arti, è proprio che si tratta di software. E cioè, possono essere fruiti direttamente su un PC, in un mondo in cui ogni casa (o quasi) è dotata di un PC. Perché, diciamolo, insegnare a un ragazzo a usare un tornio può tornargli utile solo se il suo mestiere impone l’uso del tornio. Non così per un software CAD. Ora, improvvisamente, la conoscenza diventa utile, ed utile per un orizzonte non meramente professionale, ma anche personale.

Ed è questa, la grande rivoluzione che dovremmo andare a cercare: la tecnologia che cambia le nostre abitudini non perché imposta dalle circostanze, ma perché strumento direttamente approcciato dall’utente come mezzo per esprimersi ed innovare, sperimentare e rendersi autonomi, anche se in un orizzonte solamente domestico.

Potrebbe sembrare troppo, ma in realtà le possibilità ci sono tutte. Le ore dedicate all’informatica nelle scuole, ora che le nuove generazioni hanno già un’infarinatura delle basi dell’informatica, potrebbero essere dedicate ad argomenti diversi. Pacchetto Office e Copia-Incolla lasciamoli alle scuole elementari: passata una certa età, gli insegnanti potrebbero dedicarsi ad altre cose più interessanti. Da questo punto di vista, il CAD è solo una delle possibilità: si può naturalmente insegnare le basi dei linguaggi informatici più diffusi (C, magari, e non solo Basic o Pascal), ma anche il diritto informatico, elementi di educazione civica informatica, programmi di fotoritocco e editing video, ecc… Alcune di queste cose potrebbero essere persino mescolate con altre materie, senza che la cosa sia di danno alla materia stessa (si pensi alla programmazione con la matematica, o lo stesso CAD con le materie artistiche e tecniche).

Tutto ciò non è velleità. Non è solo propinare una scuola falsamente moderna. È anzi dare alle persone gli strumenti per elevarsi, per affrontare l’inevitabile futuro e forse, chissà, anche per trovarsi un’occupazione.

E scusate se è poco.

Verità, rumore e pali della luce

C’è stata una volta in cui ho creduto di provare fortissimi legami affettivi per un palo della luce.

Non giudicatemi.

Io ho amato profondamente quel palo.

Colpa della giovinezza.

Siamo stati tutti Giovani, no?

Giovani senza regole, ingenui, affascinati dalla bellezza luccicante dei filamenti di tungsteno. Giovani che vagano in una notte soffusa e senza luna, che non permette di veder bene attraverso le nuvole basse, attraverso la nebbia densa della propria sbornia.

Sono sicuro sarà capitato anche a voi, qualche volta, di fare lo stesso.

Non dico provare amore fraterno (e fraterno solamente, sia ben chiaro) per quello specifico palo di quella specifica via di quella specifica città che, mi perdonerete l’imprecisione, preferisco non ricordare.

Dicevo, sarà capitato anche a voi di farvi accecare dall’emozione.

Poco importa se quell’emozione fosse giustificata da un avvenimento importante, dall’inconscio o se fosse emersa in tutto e per tutto dal collo di una bottiglia (o da dodici).

Tutti abbiamo il ricordo di qualche volta in cui abbiamo ceduto. Magari non ne andiamo particolarmente fieri, ma sono ricordi con cui dobbiamo imparare a convivere, se già non ci ha costretto a farlo quanto è accaduto in loro conseguenza. Errare humanum est, si diceva: errare è umano, è cosa nostra, e qui no, non c’è proprio pericolo di sbagliarsi.

E dato che siamo tutti esseri umani, su questa pagina (non me ne vogliano i bot di Google), in qualche modo siamo già tutti in grado di capirci.

Lo so, lo so. Non è proprio cosa ovvia, quest’ultima. Come gli errori, gli equivoci sono parte del nostro essere, e non sono in sé niente di particolarmente alieno, proprio come non lo sono il ragionare, il sentire, o anche il semplice respirare. Per chi é dotato del ben dell’intelletto, citando uno che la sapeva più di me, e che dunque ha avuto la possibilità di formarsi almeno una parvenza di senso critico, prendere pali della luce per vecchie conoscenze rappresenta l’occasionale – ma sicura – conferma che qualche volta abbiamo bisogno di mettere in dubbio la nostra capacità di distinguere il vero dal falso, e nel falso ciò che è menzogna da ciò che è semplicemente finzione. Un certo dire, in particolare, è menzognero quando corrisponde ad un falso creato per depistare e che noi diamo per vero fino a quando non riusciamo a trovare un modo per sbugiardare coloro che hanno provato a venderci del fumo. È finto, invece, quando la verità manifestataci non corrisponde ad un Vero maiuscolo, ma a un vero qualunquemente tale perché condiviso, socialmente apprezzato, corrispondente (perdonatemi il greco non richiesto) all’ethos di un popolo o di una qualsiasi cerchia sociale, per quanto piccola sia.

Non si tratta di definizioni mie, beninteso.

Sono del tutto al corrente che, in quanto blogger (e blogger non sorvegliato dalla SIAE, in particolare), sarei dispensato dal dirvelo, però non credo sia giusto appropriarmi delle buone idee di qualcun altro.

Del resto, essere un bugiardo è difficile. Richiede anzitutto molta fantasia: la bugia malfatta non va lontano e si nota subito, ha cioè gambe corte e naso lungo, e non tutti possono permettersi di allenare i polpacci o di farsi scolpire la proboscide senza degenerare in qualcosa di eccessivamente grottesco, per quanto lo desiderino. Non solo, ma mentire richiede costanza e pazienza. La bugia che si rispetti pretende sempre di essere seguita da prove che a loro volta dovranno essere artefatte, e domanda continue attenzioni, anche nei momenti che non ci aspetteremmo. Quel che è peggio, è che la bugia alla lunga diventa ingestibile e, se lasciata a sé stessa, arriva inevitabilmente a un punto in cui ne diventano almeno discutibili alcuni aspetti, specialmente se la bugia in questione non era abbastanza grossa da cavarsela da sola.  Se poi quella bugia non era nemmeno pianificata, spesso è necessaria anche un certo tipo di maturità tutta sua, una sorta di maturità col senno di poi,”di ripego” diciamo, per non finire male.

A ben vedere, ogni bugia è in effetti come un figlio in più. E, come nella vita reale, tanti figli richiedono tante risorse, tanto tempo e tanta buona (o, in questo caso, cattiva) volontà.

La finzione, invece, è ben altra cosa.

La finzione non richiede sforzo per essere svelata. Spesso, al contrario, la finzione è ben saputa e riconoscibile, ed è tacitamente accettata. Quando entriamo in un cinema e guardiamo uno schermo, così come quando andiamo a teatro o leggiamo un libro o videogiochiamo, sappiamo di essere di fronte a qualcosa del tutto irreale. Eppure, accettiamo la rappresentazione del finto così com’è, senza criticarla in quanto rappresentazione.

Ma il finto non è solo fiction (guardacaso). Sono finte per loro natura, ad esempio, le “verità processuali“: come un qualsiasi avvocato sconfitto potrà confermarvi, quanto deciso da un giudice corrisponde alla realtà solo nel limite in cui il processo lo consente, e nessuno si sognerebbe di dire il contrario (è il motivo, questo, per cui non sono puniti i magistrati che emettono sentenze sbagliate, fuori dai casi in cui ci abbiano messo del loro per dolo o incapacità in senso stretto). Sono finte anche le costituzioni, le ideologie, l’etica religiosa e la morale pubblica, per il semplice motivo che rappresentano uno stato di cose (più o meno) desiderabili, e non realmente esistenti. Parafrasando le parole di un certo signore inglese: posso dire che sarebbe meglio che le cose stessero in un certo modo, ma la realtà è ben altra cosa.

In ultimo, è finzione anche l’informazione. O per meglio dire, è finzione la realtà che si materializza per merito del giornalismo, sia esso cartaceo, telematico o televisivo. Ora, prima che chi di voi pubblica alternando una colonna su Repubblica e un quadretto di commento su Internazionale, e che dunque è naturale sia ostico al concetto, mi spiego meglio: esiste una realtà vera, che corrisponde alle cose come sono, e una realtà finta, generata dalla vicenda così come è raccontata, che è in buona parte storytelling, e sarebbe a dire cara e vecchia narrativa e volontaria sospensione dell’incredulità.

Il guaio è che costruire una finzione giornalistica senza criterio comporta inevitabilmente far entrare il povero lettore nelle logiche più perverse del giornalismo stesso. Il risultato, è che i comportamenti che riteniamo essere un grave problema sono in realtà in controtendenza rispetto alla media dei paesi occidentali, mentre gli italiani sono maleinformati persino su loro stessi.

Tutte cose che, ribadisco, non sono farina del mio sacco, ma sono state ben documentate da persone autorevoli, quale io non sono di certo.

Del resto, non ho proprio intenzione di plagiare nessuno, anche perché mi risulta molto più semplice rimandare tutta la responsabilità di quel che si dice a terze persone: come è loro l’idea, loro anche le critiche che quell’idea potrà scatenare. E dopotutto, se affermassi il contrario, cioè che si tratta di roba mia, direi una bugia, e abbiamo già appurato come una cosa del genere porti più fatica che no. Non voletemene, son troppo giovane per avere un figlio così bisognoso.

Eppure, pare che in giro ci sia gente più volenterosa di me. Gente che si affatica il più possibile per prendere pochi dati isolati e restituirceli nel modo più distorto possibile, e cioè nel modo che risulta comodo a creare, ad alimentare o a mantenere un’idea collettiva che ben poco ha da spartire con quanto realmente sta accadendo. E questa, come saprete meglio di me, è la tanto blasonata disinformazione.

Ora, io non voglio parlarvi di questo. Non voglio farlo perché sull’argomento, quando riferito alla nostra stampa, si potrebbe dire tutto e il contrario di tutto. Voglio invece concentrarmi su una certa notizia, passata da noi abbastanza in sordina, e che è stata comunque letta nel modo più sbagliato possibile: “Italiani campioni di internet mobile“.

Un bel titolo eh, per carità. Pare quasi sia ancora il 2006.

A parte i facili commenti, l’articolo in sé non è il peggiore che ha riguardato il dato in oggetto. Si dice che l’Italia ha segnato il record europeo per accesso alla Rete via mobile, che sarebbe dire via smartphone, reti satellitari o tablet. La cosa sarebbe sintomo, da una parte, di una certa voglia di innovazione del cittadino medio; e dall’altra, della carenza delle infrastrutture a rete fissa, segno a sua volta che il digital divide è ancora un ostacolo bello grosso per tutti noi.

E fin qui, niente da eccepire.

Il problema si palesa però lo si annusa nel non detto. Il non detto, che si riflette per la luce tutta positiva e speranzosa che accompagna la notizia, sarebbe la prova sottintesa del fatto che gli italiani, già internauti e sempre meno attaccati al televisore, sono sempre informati e aggiornati nonostante le ordalie a cui sono continuamente sottoposti, intelligenti e dotati di un senso critico superiore a quelli degli altri stati europei (e pure la Germania, creduta tanto grande, guarda più TV di noi). In altre parole, il non detto è che non dobbiamo temere: siamo er mejo, come al solito.

Ma questa (c’è da dirlo?) è finzione.

È finzione a cui siamo disposti a credere perché, in fondo, vogliamo crederci. A nessuno piace credere di far parte di un popolo malleabile, o retrogrado o anche in difficoltà oggettive, a meno di non voler in qualche modo distanziarsi come eccezione di quel popolo.

Saremo pure campioni di accessi al web da telefonia mobile, ma non dobbiamo dimenticare che la maggior parte degli utenti “smart” non utilizza Internet come un utente di rete fissa. In effetti, il traffico di chi accede con lo stesso aggeggio che usa per gli autoscatti è concentrato perlopiù nelle app e non nel browser, e pure tra le app in effetti sono solo alcune ad essere utilizzate. E queste applicazioni, manco a dirlo, sono le solite applicazioni social. Questo, unito alla effettiva capacità distortiva di cui sono dotati i così detti “influencer” genera una situazione di effettivo dominio del rumore. Rumore di fondo, che è proprio di pochi super-sociali i quali, spesso e volentieri, si limitano a riciclare e sbocconcellare quanto da altri (acriticamente) assimilato per poi rigurgitarlo sulla folla, certi che questa, in buonafede, si ingollerà a sua volta il già ruminato. Perché? Perché anche la folla, in questo modo, partecipa all’illusione sociale e ne trae, a suo modo, un beneficio: quello di poter stare meglio con sé stessa. Nel rumore, ogni lamento è ovattato, ogni rantolo è silenzio.

In questo modo, si finisce per credere che la realtà sia proprio come ci dicono debba essere.

Almeno io, col mio palo della luce, ero ubriaco.

Sicurezze ed altre incomprensioni

Non sono mai stato un tipo da social, io.

Da piccolo leggevo, rendetevi conto. E questo accadeva prima degli Harry Potter, dei Geronimo Stilton, all’epoca dove persino spulciare le storie mono-tavola del Topolino era schizofrenia borderline agli occhi del ragazzino tuo coetaneo che capiva solamente il linguaggio del televisore delle 14-16, sesto canale.

M’avevano affibbiato un computer, un glorioso MS-DOS, accessibile come una loggia massonica, poi sbocciato in un più amichevole Windows 95 a motore Pentium II, 32MB di RAM, scheda video a manovella e HDD da mezzo giga con preinstallato il primo DooM, a cui per forza di cose stavo appiccicato tutto il giorno (perché se non ero io, bimbo di 4 anni, a respingere le orde di demoni dall’invadere la Terra a suon di fucilate, chi lo avrebbe fatto?).

A calcio, avevo firmato un patto di non aggressione con il pallone. La porta del secondo controller della PlayStation mi faceva ribrezzo come . Ero il bimbo che aveva il GameBoy con Pokémon Giallo, ma non lo prestava in giro.

Sì insomma, il solito ragazzino stronzo quasi-nerd di quella generazione primi anni novanta che è arrivata sulla scena dell’informatica troppo tardi per godersi i tempi di Mitnick e di Gates e troppo presto per non vedere Facebook trasformarsi da un clone di NetLog a una sorta di alternativa più interessante dell’anagrafe. Non saprei bene come definirmi: all’epoca del suddetto PC a pedali passavo da “sfigato” a “l’amicissimo mio che sa i trucchi per l’invincibilità a Duke Nukem” a seconda della posizione di Giove in Saturno, ma ora pare che non sia più niente di speciale, visto che tutto il mondo ormai ha una “i” minuscola davanti.

E dunque, date queste premesse mi son detto: un Niente Di Speciale potrà pure esser un pelo più outsider di un Qualcuno, ma lo è certo di meno di un Quello Lì. In quanto Niente Di Speciale (o Nessuno, che dir si voglia) ho di conseguenza un certo diritto a dire la mia senza essere messo per questo all’asta delle carni insieme agli altri animali da macello. Cosa sacrosanta, fondamenta della civiltà occidentale, riassunta ben bene all’articolo 21 della Carta che i costituenti avevano approvato, giusto oggi, 68 anni fa, e via dicendo.

Mi son fatto Twitter. Che è meglio di Facebook, a mio parere, perché lì chi ha poco da dire ha fin troppo spazio per dirlo. Twitter è anche migliore per la sua struttura, perché permette di trasporre nel virtuale il meraviglioso rapporto umano del tu-ascolti-me-ma-io-non-ascolto-te senza mascherarlo dietro un’etichetta come “Amico” (parola sempre più abusata, e ben meno terrificante del twitteriano Follower, “seguace”, che sebbene sia la stessa terminologia che si usa per definire chi manda l’otto per mille all’ISIS sotto forma di munizioni calibro elefante, almeno non ci obbliga a dichiarare sentimenti d’amore cristiano verso quel certo compagno delle elementari che quando lo vedi scimmieggiare alle pizze di classe ti chiedi come mai Nature non ci abbia ancora scritto un paper sopra).

E disporre di una cassa di risonanza, per chi ha qualcosa di interessante da dire, nonostante il rumore di fondo, è una buona cosa. Ascoltate me, che non sono Quello Lì, e non ho preconcetti né vantaggi nel dirlo. Anzi, ascoltate me, che ero Prevenuto, che credevo Twitter fosse un fascio di disinformazione con annesso hashtag, che ero empio nello snobismo da Vecchio Informatico Infratrentenne, ma ora son redento.

Twitter è una buona cosa. Mi ha permesso di scoprire cose che non conoscevo già in una settimana che ce l’ho, specialmente in tema news. E non parlo delle notizie da termometro politico che mi hanno servito nella pasta da quando son nato, ma di notizie vere e interessanti, qualche volta persino positive e riguardanti i miei interessi.

Ci sono tre mie passioni “serie” di cui posso dire di andare fiero. La prima è il diritto, e in un Paese dove ci sono più avvocati pro-capite che cause nei Tribunali questo non dovrebbe scandalizzare nessuno. La seconda è la scrittura creativa, soprattutto fantascientifica, perché tutti abbiamo diritto ad un sogno per cui non siamo tagliati. La terza è l’informatica. L’informatica è stata per me un amore infantile riscoperto da adulto. Come tutti gli amori infantili, è fatto per il 95% di nostalgia e per il 5% di rimpianti. Rimpianti per non aver imparato a programmare, per non aver aperto un blog prima, per non aver scelto la facoltà giusta (anche se lì la mia inettitudine matematica è stata complice). Soprattutto, rimpianti per essere tornati a conoscere qualcosa con cui cogli anni si era perso il contatto non per scelta, ma per una sorta di intima e sopita necessità.

C’è stata, qualche giorno fa, una certa voce che ha iniziato a correre tra i nidi di Twitter, fino a raggiungere quello mio di piccolo utente rimpiantoso. S’è intartagliata tra i nodini di discussioni su Star Wars e tra i cinguettii impopolari su una certa signora del Ministero, e io l’ho vista depositarsi davanti a me per parlare a quelle necessità che avevo sempre avuto (come si possa vedere una voce è un mistero che terremo per un’altra volta).

Bassa poesia a parte, mi riferisco a un certo articolo del Guardian, che buona parte dei giornalisti italiani si sono certo letti soltanto nel titolo: “Is Europe really going to ban teenagers from Facebook and the internet?”

L’articolo, secondo me, è di tremendissima attualità, ma forse non per i motivi più scontati. Molti di voi, leggendone, si saranno resi conto dell’assurdo logico che sottende: l’assurdo di un’istituzione comunitaria che si pone di promuovere la libertà personale attraverso la Rete e al contempo vieta arbitrariamente l’accesso a Internet a una fetta di popolazione che ne è così fortmente legata.

Ora, quelli di voi che la pensano così, hanno ragione: è una contraddizione proporre un’agenda digitale progressista e adoperare metodi da Stato Etico, con tutte le derive paternalistiche che l’Etica fatta in casa comporta (anche se questa casa è l’Unione Europea). È una contraddizione anche abbastanza evidente, come se io vi dicessi che sul vostro blog potete pubblicarci quel che volete, a patto che non dia fastidio a nessuno. Voi tutti, bene o male, avete ragione a dare retta al vostro istinto critico, specialmente se siete iscritti all’Ordine dei Giornalisti.

Poi, però, mettete da parte il vostro Io giustiziere, e leggete l’articolo. L’avevate già fatto? Allora siete forse meglio di tutta la stampa italiana, e a quel punto probabilmente vi sarete resi conto anche che il problema è un altro: l’articolo linkato si riferisce a un disegno di legge (i giuristi europeisti mi perdoneranno per la licenza poetica), il quale deve peraltro essere votato proprio oggi, e non a una norma già esistente; non solo, ma l’oggetto specifico del progetto è solo accidentalmente il divieto all’infrasedicenne (peraltro, rimandato alla specifica iniziativa legislativa interna degli Stati membri per quanto riguarda le modalità d’attuazione, e comunque aggirabile col consenso dei genitori) di iscriversi ad un qualsiasi social che richieda la sua registrazione nominale, ma più precisamente il trattamento dei dati personali che le società proprietarie del social network di riferimento hanno intenzione di adottare. Il progetto – e l’articolo del Guardian lo riconosce fin da subito – mira a negare, salvo consenso dei tutori legali, qualsiasi possibilità a Facebook (come a ogni altro genere di realtà virtuale che lo faccia) di stipulare contratti di compravendita (perché di questo si tratta) dell’identità e delle espressioni social del minore, cosa non indifferente se si pensa che proprio in questo modo Facebook è diventato il colosso da profilazione mondiale che è or ora, e che sarà sempre di più in futuro. Non dobbiamo infatti dimenticare che la compagnia che sta dietro al nostro wall diventa proprietaria di ogni pensiero, ogni parola, ogni condivisione, ogni singola espressione di noi stessi lasciata nella cassa di risonanza del web sociale (nel contempo lasciandoci la responsabilità dei nostri illeciti, si veda il Punto 2.1 e il 15.2 delle Condizioni d’Uso di Facebook). Lasciare una simile responsabilità al minore, che magari la adotterebbe senza troppa cognizione per poi pentirsene, è cosa che sembrerà di poco conto oggi, ma non lo sarà tra 10-20 anni, quando le nostre informazioni saranno considerate in ben altra maniera.

Domandiamoci, ad esempio, perché non dovremmo farci versare un compenso (magari sotto forma di royalties) per le informazioni personali o per i contenuti messi a disposizione del sito per il suo completo sfruttamento? Si potrebbe dire che a Facebook non interessi come ci chiamiamo, ma magari a qualche compagnia commerciale potrebbe. Si potrebbe dire che a Zuckerberg non interessi cosa abbiamo mangiato oggi a pranzo, ma a qualcuno dei nostri amici potrebbe interessare, e Zuckerberg non può che essere felice se le nostre scelte culinarie lo aiutano a raccattare più utenti o accessi per poi usarli come leva per ricavi pubblicitari.

Eppure, il nocciolo degli articoli italiani che ho potuto esaminare in materia si è concentrato su due temi soltanto: la libertà d’espressione e la facile aggirabilità di una norma del genere, cosa sempre e comunque infarcita da commenti cinici sulla “stupidità” e “vacuità” di un intervento del genere.

E il bello sapete qual è? Nemmeno in questo caso si è parlato in modo costruttivo, o quantomeno originale. Si è detto che il diritto a esprimersi dovrebbe essere inviolabile, ma nulla si è speso esaminare il contesto in cui questo intervento si cala, e che è quello di un villaggio virtuale scarno di tutele e normative precise, che rischia di diventare sempre più una giungla proprio ora che dovremmo preparare a viverci, e nel quale la parola sarebbe inviolabilissima, certo, ma anche del tutto irrilevante, perché facilmente strumentalizzabile. Si è parlato del semplice espediente di dichiarare un’età diversa da quella reale per potersi registrare, ma non si è osservato che in molti stati questo può significare commettere reato e certamente in tutti significa predisporre un contratto annullabile (da noi, in cinque anni dalla conclusione). Non si è nemmeno osservato la possibile lettura che Facebook potrebbe fare dell’art.1426cc, e dichiarare che il minore raggirante la dichiarazione d’età non possa annullare il contratto una volta scoperto: la cosa, ora come ora, non sarebbe possibile, ma lo diverrebbe se Facebook adottasse un sistema di registrazione vagamente più complesso di quello attuale.

Il tutto, mentre in gioco ci sono milioni di utenti, già registrati e che si registreranno. Figuratevi ciascuno di essi come un articolo di consumo con un cartellino del prezzo da vendere alle società che vogliono mostrare le proprie pubblicità. Magari il prezzo al dettaglio di ogni singola unità sarà irrisorio, ma tutte insieme fanno numero, esattamente come una qualsiasi valanga è formata da tanti fiocchi di neve.

Tutte queste sono conclusioni niente affatto ovvie, che necessitano di un osservatore qualificato, per essere notate: il normale lettore, che magari ha lavorato tutto il giorno e ha cinque minuti per leggere qualcosa (e solo per rilassarsi), non ha colpa se non le coglie. Questo, anche e soprattutto perché dovrebbe essere compito del giornalista, intermediario suo necessario, filtrare i contenuti essenziali e proprorglieli in modo che lui ne tragga subito il succo. Il Guardian l’ha fatto, e il Guardian non a caso è un giornale rispettabilissimo.

Poi guardo allo scenario nostrano. E mi chiedo: ne vale la pena? Dico, discuterne in modo così superficiale. Lasciare che uno spunto di discussione così interessante se ne vada perduto nella necessità di lasciare tutto il più semplice possibile, così che chiunque possa sentirsi abbastanza preparato da poterne sparlottare. E questa è una domanda che rivolgo a tutti, compresi i blogger di professione che ne hanno parlato. Non sarebbe meglio per tutti? O forse è davvero così importante quel tweet indignato in più, quel reply stizzito che ne attira altri, quel copiare a mani basse da contenuti altrui, senza pensare?

Forse sono troppo drastico, ed esagero: magari gli articoli sono stati scritti in buonafede. Certo, può darsi. Ma può darsi anche di no.

Ancora una volta, il mondo avanza sotto al nostro naso, e noi stiamo a guardare, certi di aver capito, ma senza aver capito un’acca.

Nella foresta

Ecco sì, si diceva dei lupi e delle foreste.

L’altro giorno mi è capitato di parlarne con mio padre: si parlava di certe leggende delle parti nostre, degli spiriti delle selve, degli gnomi e dei loro re. Di come una volta le si raccontava a sera, coi vecchi che fan da cantastorie. Di come si facevan tutte quelle cose che chiunque non sia stato allevato con una flebo di ignoranza precoce conosce.

E diceva mio padre, che c’erano le fate, le avventure, e che c’era la reverenza del bosco.

C’è un aspetto della vita di campagna che sfugge a chi, come me, non ne ha avuto almeno un resoconto di senconda mano da parte di una persona che rispetta per la sua saggezza. Questo aspetto è che la foresta, come anche dovrebbe suggerire il nome, è un luogo pericoloso. Non è un parco a tema, non è una meta di gite: la foresta si teneva ad almeno qualche centiaio di metri dalle case abitate, ai bambini non era permesso andarci da soli (specialmente di notte). La foresta inquieta, e ha un suono tutto suo. Tremano gli alberi, le foglie, la natura dentro di lei; scuote chi vi si incammina. Chi lo sente, sente l’anima del bosco, e la capisce come non potrebbe mai fare solamente leggendone.

La foresta è un simbolo che conosciamo bene, anche se non ci soffermiamo a rifletterci su troppo spesso: è il contrario della città e del paese, è dove vivono e vanno a vivere le bestie, ed è dove la gente scompare per non tornare mai più. Di notte, perdersi nella foresta vuol dire quasi certamente morire, se non per i morsi di qualche animale, per quelli del freddo. Se tu, piccolo cucciolo d’uomo, non temi il bosco, allora il bosco ne approfitterà.

Il fair folk non è mai, e non è tendenzialmente mai stato nella storia dell’uomo e delle sue culture, un qualcosa di positivo. È stato, al contrario, la rappresentazione di una forza irresistibile, potente, incomprensibile, al di là di ogni aspirazione morale d’uomo. L’elfo, il nano o lo gnomo del racconto dei tempi che furono (e che, voglio illudermi, sono ancora) non è cattivo, ma certamente non è neppure buono: egli agisce con una logica aliena, che non s’inquadra negli schemi di noialtri, ma solo nei suoi propri confini naturali, ossia quelli di un popolo che ha origini e scopi diversi, e che vive in un mondo parallelo e rovescio, dove loro sono la normalità e noi l’eccezione aberrante. Un mondo dove non ha senso chiedersi se strappare le dita di quel bimbo o sterminare compagnie d’avventurieri è orrido o sbagliato, perché non vede gli uomini come parte dei loro mores. Noialtri si macella il maiale, al massimo, ma c’è da credere non ci si farebbero troppi scrupoli a continuare a macellarlo se, da oggi al domani, si scoprisse che quel suo cervello suino apprezza la musica e riflette sui massimi sistemi. Anche non fosse buono da mangiare, credo.

Ma ecco, si diceva del popolo dei boschi. Grandi Antichi ante literam. Nyarlathotep e un qualsiasi elfo alato non sono poi così distanti, nella loro ragione d’essere. Il primo rappresenta la paura del cosmico, dell’impotenza di fronte all’immensamente grande e sconosciuto. Il secondo, la paura dell’alieno, del diverso, del proporzionato a noi, ma pur sempre radicalmente altro. Cosa che andava bene, per un’epoca in cui ancora non si pensava “in grande”. Kafka era ben là da venire, come l’idea di Stato onnipervasivo, di burocrazia imperialistica, di uomo come ingranaggio irrilevante in una ruota arrugginita. Ma andava benissimo: allora la paura era che il forestiero (forestiero) arrivasse da fuori per stravolgere il delicato equilibrio di paese, portandosi via una figlia, o commettendo crimini. La paura era che non si riuscisse a sbarcare l’ìnverno o a sopportare le prove del lavoro. Che le malattie rapissero i propri cari o che la comunità si rivoltasse loro contro. O altre cose ancora, che la mia mentalità da Lovecraftiano non mi suggerisce, ma che probabilmente ha tormentato la vita dei miei nonni. Per rappresentare queste cose, l’idea di un reame magico, simile da radicalmente diverso, proprio al di fuori della quiete rassicurante del loro paesello era più che sufficiente.

Certo, son favole, quelle delle fate. Lo si sa, sì, lo si sa bene. Lo si sapeva anche allora, come anche oggi si sa che Chtulhu non significa nulla. Ma l’idea che sta dietro a quei nomi, è tutt’altra cosa. Quella è vera, è pulsante, è viva. Il bosco non ha spiriti dentro sé, ma ha un’anima fin troppo reale, che è sunto delle paure più profonde dell’uomo, e lo è stato per decine di centinaia di anni e forse anche più. Lo è stato, perché ormai il bosco è solo bosco.

Giustamente, ora le aspettative della società sono cambiate. Le paure, di conseguenza, sono radicalmente mutate. La nuova foresta è diventata la città oscura, lo spazio infinito e, per i più materialisti e pragmatici, Internet stesso, con le sue spire di opinioni indistinte e di fatti inaffidabili. Non a caso, la Rete ha le sue bestie mitologiche. I troll li si sarebbero potuti chiamare semplicemente “disturbatori”, riferendosi a loro come si è sempre fatto con chi, manifestando una volontà maligna, voleva solo metter zizzania nella comunità. Invece, si è scelto di chiamarli col nome di un mostro che abitava sotto i ponti.

La precedente incarnazione della foresta è durata migliaia d’anni. C’è da chiedersi quanto durerà quella corrente. Magari è già finita, e nella completa indifferenza del pubblico nessuno se n’è accorto, fuori da certe povere voci che, sicuramente, resteranno inascoltate nel rumore. Voci che se ne staranno in silenzio, nel mezzo della propria prigione, diversa, immensa, incontrollabile, a temerne il fruscio continuo, come vento nella foresta…

Dove quest’uomo non è mai giunto prima

C’è voluto tanto tempo, ma è finalmente finita.

L’università, dico. È finita. Stop, kaputt, basta. Cinque anni passati sommerso da libri, appunti, preoccupazioni: andati così, con un certificato e il benservito dalla mia Alma. Con un foglio di carta, sarebbe a dire, e la prospettiva di poterlo apprendere su qualche bel muro, nella propria stanzetta, vicino al diploma di maturità, sopra alla collezione di libri di fantascienza.

Un bel foglio. In falsa cartapecora, ornato e firmato e controfirmato. Con un numeretto a tre cifre.

Più o meno lo stesso numero di cifre che per un po’ di tempo si leggeranno sugli assegni, certo, ma comunque un numero soddisfacente. Magari il corso non era proprio quello che si era sognato, quando ancora si stava in classe dieci anni fa, a prendere appunti su Aristofane e a sbagliare le equazioni di secondo grado, ma è pur sempre qualcosa.

Sì, un bel foglio. Che vale pur sempre qualcosa.

Un primo impiego come apprendista, un biglietto per il mondo del lavoro, quello vero, una prova inconfutabile che si è pronti per quell’universo. Sono sette estati che si lavora, ma quelle non contano (che poi, i veri lavoratori già in università lavoravano, e poco importa molti siano ancora lì, perché tanto lavoratori sono). Contano i mesi che verranno, i soldi che si metteranno via, i progetti che si faranno con il proprio partner, o con un partner immaginato. Si pensa di spendere il primo stipendio in sfizi, e mettere via tutti quelli successivi. Per il futuro.

Il futuro, che si può immaginare solo vagamente, che è a momenti luminoso e orrido il resto del tempo. Che è un salto nel vuoto.

Ecco, il foglio vale sempre qualcosa. Vale un salto nel vuoto, una prova di coraggio.

Non è una cosa negativa. È necessaria, anzi: sfumata l’epoca in cui si diventava adulti con una notte tra le belve, è arrivata quella in cui il rito d’iniziazione della gente comune si è declinato in cinque anni di dolorosa concentrazione e una stretta di mano da un Magnifico qualunque. È anche meglio, se si pensa al fatto che non ci sono più né lupi, né orsi, né demoni nella foresta.

Dicevo, stringere quella mano è una cosa necessaria, ed io l’ho stretta bene. Mi ci sono proprio prestato. Come fa un ometto vero.

È finita, sì. Forse però con l’amaro in bocca. Sarà capitato anche a voi, laureati, di guardare quel distinto signore diritto negli occhi, mentre vi tasta il palmo. Qualcuno sarà stato anche contento, penso (eh sì, è il giorno della laurea, giorno importante, notte di polizia…), ma qualcun altro lo avrà visto bene, nei suoi occhi, quel luccichio. Il lumino, la torcia che viene a prenderti dopo che hai dormito col lupo per tutto questo tempo. La scintilla della finzione, che ti ricorda come quelle belve selvagge non sono mai venute a prendere né te, né nessun altro, da tanto tempo.

Un uomo è tale se lo dice un pezzo di carta. Ecco il lumicino.

A quel punto, sarà capitato ai più smaliziati di smorfiare un po’ a quella bugia. E questo è il segno che la maturità era arrivata molto tempo prima di quello che si pensava. Ed è il segno che i tempi sono cambiati. Che non ci sono più né lupi, né orsi, né demoni nella foresta. Chi lo sa, fa già parte di un mondo nuovo. Gli altri, non lo sapranno mai.

Tutto questo mi ricorda, o forse mi è ispirato da, certe righe con cui Alfred Bester inizia il suo Destinazione stelle:

«This was a Golden Age, a time of high adventure, rich living and hard dying… but nobody thought so.» […]

«All the habitable worlds of the solar system were occupied. Three planets and eight satellites and eleven million million people swarmed in one of the most exciting ages ever known, yet minds still yearned for other times, as always.»

As always, come sempre.

È un inizio nuovo anche per me, questo. Ho aperto un blog. Che ci crediate o meno, questo già mi rende parte di quella nicchia di privilegiati che possono dire di essere in qualche modo diversi dal gran grosso dei milioni d’italiani qui in giro (sport popolarissimo, questo di dirsi diversi, con all’attivo molti dilettanti e pochi strapagati professionisti). Cosa ci metterò, non lo so proprio, anche perché non credo al vecchio adagio blogghesco: “scegliti la tua comfort zone, scegliti il tuo pubblico, e aspetta”. Anche se ci credessi, non lo seguirei, questo proverbio nuovo, perché sarei più a mio agio a dire la mia, piuttosto che a dire alla gente quello che si vuole sentir dire (cosa che, noterete, dicono tutti).

Magari politica, che fa sempre figo. Magari qualche racconto, finché non troverò un altro hobby.

Magari quello che mi viene in mente dopo aver buttato lì un titolo. Anche quello funziona.

Per adesso, in questa nuova epoca d’oro e in questa nuova era di avventure, mi guarderò un po’ in giro.