Nella foresta

Ecco sì, si diceva dei lupi e delle foreste.

L’altro giorno mi è capitato di parlarne con mio padre: si parlava di certe leggende delle parti nostre, degli spiriti delle selve, degli gnomi e dei loro re. Di come una volta le si raccontava a sera, coi vecchi che fan da cantastorie. Di come si facevan tutte quelle cose che chiunque non sia stato allevato con una flebo di ignoranza precoce conosce.

E diceva mio padre, che c’erano le fate, le avventure, e che c’era la reverenza del bosco.

C’è un aspetto della vita di campagna che sfugge a chi, come me, non ne ha avuto almeno un resoconto di senconda mano da parte di una persona che rispetta per la sua saggezza. Questo aspetto è che la foresta, come anche dovrebbe suggerire il nome, è un luogo pericoloso. Non è un parco a tema, non è una meta di gite: la foresta si teneva ad almeno qualche centiaio di metri dalle case abitate, ai bambini non era permesso andarci da soli (specialmente di notte). La foresta inquieta, e ha un suono tutto suo. Tremano gli alberi, le foglie, la natura dentro di lei; scuote chi vi si incammina. Chi lo sente, sente l’anima del bosco, e la capisce come non potrebbe mai fare solamente leggendone.

La foresta è un simbolo che conosciamo bene, anche se non ci soffermiamo a rifletterci su troppo spesso: è il contrario della città e del paese, è dove vivono e vanno a vivere le bestie, ed è dove la gente scompare per non tornare mai più. Di notte, perdersi nella foresta vuol dire quasi certamente morire, se non per i morsi di qualche animale, per quelli del freddo. Se tu, piccolo cucciolo d’uomo, non temi il bosco, allora il bosco ne approfitterà.

Il fair folk non è mai, e non è tendenzialmente mai stato nella storia dell’uomo e delle sue culture, un qualcosa di positivo. È stato, al contrario, la rappresentazione di una forza irresistibile, potente, incomprensibile, al di là di ogni aspirazione morale d’uomo. L’elfo, il nano o lo gnomo del racconto dei tempi che furono (e che, voglio illudermi, sono ancora) non è cattivo, ma certamente non è neppure buono: egli agisce con una logica aliena, che non s’inquadra negli schemi di noialtri, ma solo nei suoi propri confini naturali, ossia quelli di un popolo che ha origini e scopi diversi, e che vive in un mondo parallelo e rovescio, dove loro sono la normalità e noi l’eccezione aberrante. Un mondo dove non ha senso chiedersi se strappare le dita di quel bimbo o sterminare compagnie d’avventurieri è orrido o sbagliato, perché non vede gli uomini come parte dei loro mores. Noialtri si macella il maiale, al massimo, ma c’è da credere non ci si farebbero troppi scrupoli a continuare a macellarlo se, da oggi al domani, si scoprisse che quel suo cervello suino apprezza la musica e riflette sui massimi sistemi. Anche non fosse buono da mangiare, credo.

Ma ecco, si diceva del popolo dei boschi. Grandi Antichi ante literam. Nyarlathotep e un qualsiasi elfo alato non sono poi così distanti, nella loro ragione d’essere. Il primo rappresenta la paura del cosmico, dell’impotenza di fronte all’immensamente grande e sconosciuto. Il secondo, la paura dell’alieno, del diverso, del proporzionato a noi, ma pur sempre radicalmente altro. Cosa che andava bene, per un’epoca in cui ancora non si pensava “in grande”. Kafka era ben là da venire, come l’idea di Stato onnipervasivo, di burocrazia imperialistica, di uomo come ingranaggio irrilevante in una ruota arrugginita. Ma andava benissimo: allora la paura era che il forestiero (forestiero) arrivasse da fuori per stravolgere il delicato equilibrio di paese, portandosi via una figlia, o commettendo crimini. La paura era che non si riuscisse a sbarcare l’ìnverno o a sopportare le prove del lavoro. Che le malattie rapissero i propri cari o che la comunità si rivoltasse loro contro. O altre cose ancora, che la mia mentalità da Lovecraftiano non mi suggerisce, ma che probabilmente ha tormentato la vita dei miei nonni. Per rappresentare queste cose, l’idea di un reame magico, simile da radicalmente diverso, proprio al di fuori della quiete rassicurante del loro paesello era più che sufficiente.

Certo, son favole, quelle delle fate. Lo si sa, sì, lo si sa bene. Lo si sapeva anche allora, come anche oggi si sa che Chtulhu non significa nulla. Ma l’idea che sta dietro a quei nomi, è tutt’altra cosa. Quella è vera, è pulsante, è viva. Il bosco non ha spiriti dentro sé, ma ha un’anima fin troppo reale, che è sunto delle paure più profonde dell’uomo, e lo è stato per decine di centinaia di anni e forse anche più. Lo è stato, perché ormai il bosco è solo bosco.

Giustamente, ora le aspettative della società sono cambiate. Le paure, di conseguenza, sono radicalmente mutate. La nuova foresta è diventata la città oscura, lo spazio infinito e, per i più materialisti e pragmatici, Internet stesso, con le sue spire di opinioni indistinte e di fatti inaffidabili. Non a caso, la Rete ha le sue bestie mitologiche. I troll li si sarebbero potuti chiamare semplicemente “disturbatori”, riferendosi a loro come si è sempre fatto con chi, manifestando una volontà maligna, voleva solo metter zizzania nella comunità. Invece, si è scelto di chiamarli col nome di un mostro che abitava sotto i ponti.

La precedente incarnazione della foresta è durata migliaia d’anni. C’è da chiedersi quanto durerà quella corrente. Magari è già finita, e nella completa indifferenza del pubblico nessuno se n’è accorto, fuori da certe povere voci che, sicuramente, resteranno inascoltate nel rumore. Voci che se ne staranno in silenzio, nel mezzo della propria prigione, diversa, immensa, incontrollabile, a temerne il fruscio continuo, come vento nella foresta…

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